1) La macchina fotografica; videre et intueri
Anni fa, molti anni fa, nel ‘73, andai in India. Da solo…
Fu un viaggio bellissimo ma anche dolorosissimo.
Avevo portato la macchina fotografica; ma riuscii a fare solo qualche scatto.
Nel viaggio da Kadmandu a Benares, feci amicizia con due belgi. All’arrivo a Kajurao, compilando alla ricezione dell’albergo la mia scheda, mi accorsi che stavo per scrivere, a proposito della mia nazionalità, “ind(ien)” invece di “i(talien)”. Capii che il “mal d’India” mi aveva colpito e decisi di tornare in Italia.
Prima di partire lasciai ai nuovi amici tutte le medicine (di cui fortunatamente non avevo avuto bisogno); e tutti i rullini.
Mesi dopo mi spedirono delle foto dei templi di Kajurao; alcune di esse fanno ancora bella mostra di sé in uno dei miei due studioli.
Mi sono sempre detto che, in India, non ero riuscito a fare un “servizio fotografico” a ciò impedito dall’empatia con quel che avrei potuto fotografare (monumenti, gente, situazioni).
Qualcosa, ad un certo punto, molto recentemente, mi ha messo sull’avviso. Sono andato (quattro anni fa) a trovare una mia amica colpita da un male (erano due, i mali!) che non perdona (perdonano), a Liegi. All’andata e sulla via del ritorno, mi sono fermato a Bruxelles.
Che trovai stupenda. Più che stupenda, affascinante. Andai e ritornai mille volti a vedere la Grand Place…
Non avevo portato la macchina fotografia. Ma mi trovai a fingere di guardare Bruxelles con un obiettivo fotografico incorporato nel mio sistema ottico. Se avessi smesso questa finzione, non avrei visto quel che ho visto (o m’è sembrato di aver visto).
Una conferma dagli ultimi viaggi (Istanbul più di un anno fa; Fès mesi fa; più recentemente Addis Abeba).
Qui penso soprattutto ad Addis Abeba.
Peggio dell’India; miseria, miseria, miseria. (Quella parola mi apparve “triplicata” nel suo significato!). Nessun monumento. Solo grattacieli in costruzione qua e là.
Ho fatto migliaia di fotografie.
Ma non un “servizio” fotografico. Nel senso che si dà al termine immaginando che chi fotografa, aiutato dal fatto stesso di fotografare, rimanga “estraneo” a quel che fotografa.
Fotografare mi ha come aiutato/costretto a entrare dentro, a veder dentro (a in-tueri).
Col risultato che ho sofferto forse eccessivamente.
Ad Addis Abeba molto di più che a Calcutta. Dove pure ho visto un mendicante morire per la strada!
Ho trascorso ore in albergo; solo; a scrivere delle note; semplicemente sdraiato sul letto. Come impegnato a digerire qualcosa di indigesto.
Indigeribile e indigesta rimaneva la sofferenza.
E fotografarla era stato incorporarla (in corpus vivum)…