Autore: Salvatore Cesario
Nel cuore dell’ipnosi e del transfert
1. Il problema
a) La terapia breve e il suo aldila
Come nasce questo testo?1 Una collega mi propone di occuparmi di una persona che ha incontrato in sede di Primo Ascolto e che considera troppo problematica: si tratta di una giovane fobico-ossessiva abbastanza grave. La collega, peraltro, fino ad allora ha lavorato esclusivamente, o quasi, sull’utenza infantile. Io accetto di buon grado di occuparmene.
Da parecchio, in sede di Unità Operativa, si discuteva dei vari modi con cui fronteggiare le numerose richieste di intervento psicologico ed io proponevo, anche allo scopo di evitare la formazione di liste di attesa: di reinventare i setting classici introducendovi dei cambiamenti nella direzione di una presa in carico, al limite destinata anche a durare tutta la vita dell’utente, ma articolata nel tempo, cioè ritmata; ritmata, nella periodicità degli incontri e nella durata del cicli di incontri, sulla base delle scelte fatte di volta in volta dall’utente oltre che dalla proposte dell’operatore; di produrre, soprattutto nelle situazioni di crisi in cui era presente anche il vissuto della crisi, interventi non psicoterapeutici ma a valenza psicoterapeutica, nei quali si estrinsecasse il massimo della variabilità del setting, anche relativamente alla sua dimensione temporale; di orientarsi all’utilizzazione del setting di terapia breve.
Quella offertami dalla mia collega mi sembrava, quindi, un’occasione buona per tentare un’esperienza di terapia breve nel contesto che si era andato creando.
La terapia breve è stata una scoperta che ho fatto, sulla mia pelle,2 nei primi anni ottanta quando, unico psicologo in un Distretto Socio- Sanitario, dovevo trovare il modo di rispondere a tutte le richieste — ed erano numerose — di intervento psicologico. La scoperta però avvenne in modo anodino: ero andato a lavorare presso quel Distretto ma non sapevo quanto tempo ci sarei potuto rimanere; il primario psichiatra a cui ero andato a chiedere lavoro — non esisteva ancora l’U. O. di Psicologia e gli psicologi lavoravano-non lavoravano completamente sciolti; io entravo nell’U. S. L. dopo due-tre anni dalla loro istituzione, alla fine di un mio comando presso un gruppo inter-assessorile etc — mi consigliò di fare, invece che delle terapie, delle osservazioni prolungate; mi suggerì di fare dieci incontri per utente!
Cominciai a scoprire che, con l’avvicinarsi del penultimo incontro, e con una certa regolarità, avvenivano delle cose strane! Ma molto strane! In sintesi: da un certo momento in poi, di solito sul finire dei fatidici — ho capito che erano fatidici solo après-coup — dieci incontri, gli eventi precipitavano, sì, questa è la parola giusta: precipitavano verso una svolta (in generale: positiva)…