LUCI DELLA RIBALTA
(Charlie Chaplin)
La didascalia iniziale: “Age must pass as youth enters” (“chi è vecchio deve cedere il passo a chi è giovane”).
Depressione e cura della depressione. C’è una giustizia (il processo “breve”)? Un amore eterno? Et cetera. Fellini: “Come cineasta, vorrei aggiungere che se Rossellini è stato Omero per tutti noi, Chaplin è stato Adamo, un progenitore: discendiamo tutti da lui”. Singolare che, a causa dei problemi di Chaplin col Maccartismo, il film sia rimasto inedito negli Stati Uniti fino al 1972. Nello stesso anno vinse un Oscar alla carriera. Nel 1973 per la miglior colonna sonora (la musica composta da Chaplin stesso). Fu il primo caso di Oscar retroattivo. Il primo oscar Chaplin lo aveva avuto nel 1929 anch’esso alla carriera.
1. Ho rivisto Luci della Ribalta!
In anni non molto lontani mi sono occupato di cinema; ho scritto un volume su Hitchcock (con due brevi saggi su Romher e su Chabrol). Un volume anche su Truffaut…
Eppure da qualche tempo non vado più al cinema. Tranne che per qualche occasione. Ho visto l’ultimo dei fratelli Coen (A Serius Man)… l’ultimo di Solondz (Happiness)… e poco altro.
Giorni fa sono inciampato, su Sky, nella versione restaurata di Luci della ribalta (Limelight).
L’ho visto tutto. L’ho anche trascritto.
Soprattutto ho scoperto: l’acqua calda, direte voi, ma tant’è: non è che gli anni portino consiglio; ma sicuramente un nuovo punto di vista…
Fatto sta che per la prima volta, rivedendo il film visto e rivisto, ho colto significati che mi erano sfuggiti.
Parlavo recentemente con una mia veccia allieva (lei è molto giovane) che è stata per quattro anni in India. Ci siamo scambiati ricordi… È evidente, comunque, che la mia India è molto poco confrontabile con la sua.
Come se tornassi in Cina dopo circa quarant’anni: allora era ancora vivo Mao; tutte le donne vestivano di bianco e tutti gli uomini di grigio…
Insomma: sic transit gloria mundi. Ma non solo la sua gloria…
2. Sulla depressione
Nel 1952, quando scrive (oltre il testo anche la musica), sceneggia, dirige e recita Luci della ribalta, Chaplin (16 aprile 1889 – 25 dicembre 1977) ha 63 anni. Sa che cosa significhi il successo ma anche che cosa potrebbe essere (forse è anche stato) l’insuccesso.
Da quel che ci resta delle sue conversazioni con Georges Simenon, veniamo a sapere che entrambi avevano in mente lo stesso rimedio alla depressione: non la psicoterapia ma il lavoro artistico; Simenon avrebbe posto mano ad un nuovo romanzo, Chaplin ad un nuovo film.
Ma sappiamo che Simenon, una “bella volta”, dopo aver dato un titolo al suo nuovo romanzo, non riuscì a scriverlo.
Si affidò alle Dictées… E scrisse altre centinaia di pagine (non le scrisse; le dettò al magnetofono). Sempre meglio di una psicoterapia; comunque, una auto-psicoterapia.
Io ci sto arrivando in ritardo, all’età di 73 anni.
A me sembra che, in questo film, Chaplin discuta di tante cose ma, soprattutto, della depressione.
E, se ne parla come ne parla, deve averla conosciuta.
Io l’ho conosciuta.
E, probabilmente, questa esperienza mi ha permesso di leggerla, stupendamente interpretata, in Luci della ribalta.
La mia depressione, è stata sicuramente accresciuta dall’andata in pensione all’età di 72 anni: “Sono socialmente inutile”, ho capito una settimana dopo l’ultima lezione; e mi sono consolato, ma troppo facilmente, dicendomi in guisa autoironica: “Ma quando mai sei stato socialmente utile!”
Ma è stata determinata dall’incrudelire di vicende giudiziarie che mi hanno visto alla fine legalmente “ab-solutus” ma moralmente “dis-solutus”.
3. L’amore eterno.
Qual è la caratteristica peculiare della strana coppia Chaplin/Terry?
La reciprocità.
Che è l’opposto del “mors tua vita mea”. Quest’ultimo implica come elemento necessario un conflitto destinato al versamento del sangue (girardianamente: al “sacrificio”).
Chaplin/Calvero, novello e superlativo Freud, guarisce Terry dalla paralisi (uno dei miracoli in cui era specializzato il Cristo: “Levati, prendi il tuo letticciulo e cammina!”).
E Terry guarisce Chaplin/Calvero dalla depressione. Lo riporta addirittura al successo “autentico”.
Su questa reciprocità si fonda la permanenza dell’amore che Terry definirà “eterno”. E Chaplin acconsentirà: “Mi ami, certo! Mi amerai sempre” + “E come sarà sempre d’ora in poi. Noi gireremo il mondo”.
Come vedremo meglio nel dettaglio, non si tratta di una “storia” sessuale.
Qui l’amore è l’amore che si realizza quando la “tua” vita è la “mia (al contrario del “mors tua vita mea”).
Se la depressione è la morte, Luci della ribalta dimostra la possibilità che si possa morire diverse volte e diverse volte risorgere (in una sorta di “intermittenza” degli opposti (più che di una coincidentia oppositorum):
CHAPLIN: La mia ora è vicina, dottore. Ma poi non so: sono morto tante volte!
DOTTORE: Soffre molto?
CHAPLIN: Non più! Dov’è [Terry]? Fatemela vedere!
Con la “visione” di Terry si conclude il film.
4. La satira musicale
L’episodio interpretato con un Buster Keaton (lo potere rivedere qui sotto) è tutto intessuto di colpi e contraccolpi, ad infinitum (= in circolo): Chaplin, nell’attesa di Keaton, si aggira qua e là (sul palcoscenico). Ma una gamba gli si accorcia… Riesce ad allungarsela: gli si accorciano entrambe le gambe… Mentre accorda il violino, le corde, una alla volta (almeno due) saltano; nel frattempo Keaton è tutto impegnato a ritirare sul leggìo uno spartito alluvionale che gli scivola giù dal pianoforte… Keaton insiste a dare il la, ad aiutare l’accordatura del violino. All’interno del pianoforte, un fragore come quello della rottura di tutte le sue corde. Chaplin va ad occuparsi del pianoforte (e poggia il violino sul suo coperchio). Cerca di capire che cosa sia successo dentro… Inevitabilmente provoca la caduta del violino e Keaton, dopo alcuni passi di danza che tentano di evitare l’istrumento, lo schiaccia con una pedata e se lo porta dietro incorporato. Chaplin riesce a trarre dal pianoforte il cordame contorto. Keaton lo aiuta a tagliare quei capi che restano ancora avvinghiati a chissà cosa dentro. Detto fatto: Chaplin tenta di suonare (il piano) e questo risponde brillantemente… Evidentemente, sul più bello scopre che il violino è andato perduto ma ne sfodera uno tutto nuovo da dietro le spalle. Keaton precipita per terra ma continua a suonare. Chaplin fa piroette su piroette. C’è un un breve momento in cui, quasi a turno, entrambi si zittiscono e si accasciano pensosi (= depressi), il capo rovesciato sul pianoforte. Ma ricominciano. Una delle ultime piroette fa rotolare Chaplin verso l’orchestra e scivolare sotto fin dentro un tamburo. Ma, anche incastrato in quest’ultimo, Chaplin continua a suonare…
Uscita di scena.
Reingresso: “A nome del mio partner e mio è stata una bella serata… Continuerei… se non fossi rimasto incastrato…”
Applausi.
Tutto un rimanere incastrati e un disincastrarsi; ad infinitum.
È evidente, almeno a me, che quest’episodio è la climax del film (e della dimostrazione).
La coincidentia oppositorum è coincidenza di insuccesso e successo: per dirne una: lo sfascio di un violino è il presupposto per la comparsa dell’altro; per dirne un’altra: il crollo nel tamburo è la produzione di un suono più alto: qui c’è, addirittura, coincidenza della vita e della morte e della vita…
Viene in mente il Paolo della lettera ai Romani: “Tutte le cose cooperano al bene di coloro che amano Dio”.
Ma, qui, chi è Dio?
5) Il video
6) Fior da fiore
Sceglierò delle sequenze, come si dice, “fior da fiore”.
Commenterò di striscio.
Trascurando di necessità tutto il non verbale.
Tenete presente che tutto procede verso uno scioglimento e che quest’ultimo è rappresentato dall’ultimo “numero” recitato da Chaplin insieme con Keaton) e da lui precedentemente intitolato “una ristata satirica” (il video).
a. Le début
Il film comincia con una scena hitchcockiana: la telecamera precede il visitatore filmando tutte le scene che successivamente quest’ultimo attraverserà.
Il Nostro scrive nel 52; Frenzy, il penultimo film di Hitchcock, è del 71.
Quindi, nessuna mutuazione.
Comunque è molto interessante; anche se, in Frenzy, la camera finirà con l’inquadrare la vittima di un omicidio, in Luci della ribalta quella di un suicidio (fortunatamente soltanto tentato).
b. Vitalità -> depressione -> vitalità ->
Poche parole: Calvero salva Terry…
Quando questa socchiude gli occhi:
TERRY: Doveva lasciarmi morire!
CALVERO: Quanta fretta! Soffre molto?
TERRY: ???
CALVERO: Questo è quello che conta! Il resto è fantasia. Ci sono voluti milioni di anni per far evolvere la coscienza umana e adesso lei vuole cancellarla. Distruggere il miracolo dell’esistenza. Più importante di qualsiasi altra cosa nell’universo….. Può ragionare il sole? È cosciente? No! Ma lei sì!
La “canna pensante” di Pascal docet.
Qui: e in molte altre sequenze, l’esaltazione della vita.
Ma non fatevi ingannare. La vita è anche la morte. La vitalità confina con la depressione ed il reciproco.
Il Nostro esce, anche per andare in una farmacia…
c. “Anch’io”
[…]
CALVERO: Comunque lei è padrona di restare qui fin quando non avrà deciso cosa fare.
TERRY: Cosa posso fare! Sono disperata! Perché non mi ha lasciato morire?
CALVERO: Non parli così! È viva ed è meglio che si arrangi come può.
TERRY: Sono povera e malata
[…]
CALVERO: Ma è stata malata!
TERRY: Sì; cinque mesi all’ospedale con una febbre reumatica.
CALVERO: È tutto qui? E allora di cosa si lamenta?
TERRY: Non posso più lavorare!
CALVERO: Cha lavoro fa?
TERRY: Ero ballerina.
CALVERO: Lei balla?
TERRY: Facevo parte dell’Empire Ballet.
[…]
CALVERO: Mi dispiace, non ci siamo presentati.
TERRY: Thereza Ambrose, ma mi chiamano Terry.
CALVERO: Delizioso!, sono anch’io un artista. Mi chiamo Calvero. Forse conosce il mio nome.
[…]
Fondamentale questo “anch’io”. Come vedremo (le cinque mogli) Calvero è Chaplin, ma è anche Terry (e il reciproco).
Quindi, dovremmo sostituire Calvero e anche Terry con Chaplin che recita tutte le parti (Claire Bloom recita Terry; e quando balla è sostituita da Melissa Hayden).
Che il film sia molto autobiografico lo segnala anche il fatto che Chaplin inserisce nel cast un po’ tutti i componenti della sua famiglia, dal fratellastro Wheeler Dryden (il dottore di Terry), al secondogenito Sydney (Neville, il rivale in amore di Calvero), al primogenito (il poliziotto nell’arlecchinata); persino i suoi tre piccoli bambini avuti da Oona O’Neill (la quinta moglie) hanno una piccola particina all’inizio. (Il film rimase in lavorazione per ben tre anni e vennero utilizzati ben 100.000 metri di pellicola, tempi assurdi anche per i mezzi odierni).
Continua:
CHAPLIN: Ma mi dica: che cosa l’ha portata a questo sconforto?
TERRY [Per semplificare]: La salute, penso.
CHAPLIN: Allora dovremo guarirla. […].
[…]
TERRY: Non le darò disturbo?
CHAPLIN: No, affatto! Ho avuto cinque mogli, una in più una in meno non mi fa né caldo né freddo. Per di più ho raggiunto un’età in cui un’amicizia platonica può essere mantenuta sul più elevato piano morale.
Sappiamo che Chaplin fa passare Terry per sua moglie onde evitare i pettegolezzi della maison.
Tutti sanno che Chaplin ha avuto cinque mogli: da cui la conferma dell’identità attore/autore… E qualcosa circa il carattere platonico della relazione con Terry (certo non con le mogli e non solo con esse).
d. “La vita non ha senso! È desiderio!”
Continua:
CHAPLIN: Dica un po’, è stata solo la salute che le ha fatto fare quel che ha fatto?
TERRY: Quello… e…
CHAPLIN: E che altro?
TERRY: L’estrema inutilità di ogni cosa. Lo vedo anche nei fiori, lo odo nella musica. La vita è senza scopo e senza senso.
CHAPLIN: Perché vuole che abbia senso? La vita non ha senso! È desiderio! Il desiderio è il tema della vita. È quello che spinge una rosa ad essere una rosa e a voler crescere e rimanere così. E una pietra a contenere se stessa e rimanere così. E di che cosa ride ora?
TERRY: Della sua imitazione della rosa e della pietra [Chaplin ha imitato, e continuerà a farlo, la rosa ed altro].
[…]
CHAPLIN: […]. Comunque il significato di ogni cosa non è che un altro modo di esprimere la stessa cosa. Dopotutto una rosa è una rosa è una rosa. Niente male! La autorizzo a ripeterla. Pensi com’era priva di significato un momento fa la sua vita. E adesso lei ha un marito e una casa temporanei. […]. Buona notte!
Imitando la rosa, la pietra ecc., Chaplin ha cominciato a “guarire” Terry (dopo averla salvata). Vedremo che si trasformerà un novello e provetto Dott. Freud.
Chaplin sogna suoi “numeri” passati”; anche un numero recitato insieme a Terry!
e. “E allora viva senza speranza!”
Il giorno dopo…
Chaplin qui sotto viene a sapere che Terry ha le gambe paralizzate. Infatti, non è riuscita a levarsi dal letto…
[…]
CHAPLIN: […]. Ah!, sono state loro [le cipolline]. Ho sognato che recitavamo insieme qualcosa sulla primavera.
TERRY: Interessante!
CHAPLIN: Sì, mi vengono idee magnifiche in sogno. Poi mi sveglio e le dimentico. Lo sa? Ultimamente ho sognato molto il teatro, recitando di nuovo il mio vecchio repertorio. […].
[…]
TERRY: Ma non posso star qui, darle tutto questo fastidio!
CHAPLIN: Mi lamento forse?
TERRY: Eppure sono un tal peso! Ma non è mia la colpa. Lei mi ha voluto salvare!
CHAPLIN: Tutti facciamo sbagli, lo sa!
TERRY: Mi dispiace!
CHAPLIN: Lo credo bene! Una ragazza come lei che vuol gettare la vita così! Quando avrà la mia età sarà diverso.
TERRY: Perché?
CHAPLIN: Beh!, a questo punto del gioco la vita diventa un’abitudine.
TERRY: Oh!, un’abitudine senza speranza!
CHAPLIN: E allora viva senza speranza! Alla giornata! Ecco, ecco! Ci sono ancora dei bei momenti!
TERRY: Ma quando si è persa la salute!
CHAPLIN: Mia cara ragazza, mi avevano dato per spacciato sei mesi fa. Ma ci si batte, Questo dovrebbe fare!
TERRY: Sono stanca di combattere.
CHAPLIN: Ah!, perché combatte contro se stessa. E, quindi, senza speranza! Ma combattere per la felicità è bello!
TERRY: La felicità!
CHAPLIN: Esiste, le dico!
TERRY: Dove?
CHAPLIN: Senta. Da ragazzo mi lamentavo sempre con mio padre perché non avevo giocattoli. Lui mi diceva: questo [picchia ripetutamente un dito sulla fronte] è il più bel giocattolo del creato; è qui il segreto della felicità.
TERRY: Quando lei racconta nessuno penserebbe mai che lei è un comico!
CHAPLIN: Già, comincio ad accorgermene! Per questo non trovo lavoro.
TERRY: Perché?
CHAPLIN: Perché forse non hanno fantasia; o forse perché passano gli anni e credono che io sia finito.
TERRY: No, mai! Se parla come ora…
CHAPLIN: Forse bevevo troppo.
TERRY: Di solito c’è una ragione se uno beve.
CHAPLIN: Ah!
TERRY: L’infelicità, suppongo!
CHAPLIN: No, a quella sono abituato. Era qualcosa di più complesso. Sa, più gli anni passano, più si vuol vivere intensamente… Un senso… di triste dignità ci pervade; e ciò è fatale per un comico. A me è capitato! […].
Come vedete Terry comincia anche lei l’opera guaritrice…
Chaplin segnala che si tratta di qualcosa di “più complesso” della felicità e dell’infelicità. È il tema del film!
f. Era qualcosa di più complesso.
Continua:
TERRY: Che tristezza dover essere buffo!
CHAPLIN: Eh!, è più triste quando non ridono! Ma parliamo di cose più allegre. Poi voglio dimenticare il pubblico!
TERRY: Non credo; lei lo ama troppo!
CHAPLIN: Non ne sono tanto sicuro. Forse lo amo ma non lo ammiro.
TERRY: Io credo di sì.
CHAPLIN: Individualmente sì, ognuno ha qualcosa di grande. Ma come folla è come un mostro senza testa che non si sa da che parte si volterà. Può essere spinto in qualsiasi direzione.
Qui arriva il telegramma con cui comincia il ritorno, accidentatissimo, sulle scene.
È evidente che il “mostro” non è solo il pubblico, ma la vita (e la morte).
g. Beh!, ho capito quello che devo fare!
Chaplin va a farsi riscritturare…
Al ritorno incontra il medico:
[…]
MEDICO: […]. Ma, secondo me, non ha niente alle gambe! È perfettamente sana: credo che sia un caso di psicoanestesia.
CHAPLIN: Ma le ha detto che ha avuto delle febbri reumatiche?
MEDICO: Sì, ma non le ha certo ora! Il cuore ne sarebbe toccato. E è perfettamente sana! Credo…
CHAPLIN: E che cos’è?
MEDICO: Una forma di isterismo… che ha le caratteristiche della paralisi senza esserla.
CHAPLIN: E come se lo spiega?
MEDICO: Nel suo caso credo che è psicologico. Semplice suggestione. Fallito il suicidio, nel suo subcosciente ha deciso di perdere le gambe.
CHAPLIN: La posso aiutare in qualche modo?
MEDICO: Soprattutto ella deve aiutare se stessa. Ci vorrebbe uno psicologo, eh…
CHAPLIN: Il Dott. Freud!
MEDICO: Sì.
CHAPLIN: Beh!, ho capito quello che devo fare!
MEDICO: Va bene, bravo!
CHAPLIN: Buongiorno dottore, grazie.
E Chaplin fa a Terry una psicoanalisi brevissima ed efficacissima.
Riguardate il film. Una breve sequenza:
[…]
CHAPLIN: Mi racconta come…
[…]
CHAPLIN: Beh, non c’è bisogno di Freud per capire che quando ha visto di nuovo questa ragazza, lei non vuole più ballare.
TERRY: Perché?
CHAPLIN: Lei associa il ballo… […].
h. No, non c’è bisogno del dottor Freud!
Alludiamo solo di passaggio al fatto che, tempo fa, Terry si è sicuramente innamorata di un giovane pianista… Non troveremo mai un rapporto “in corso” con costui… Ma sarà utile ricordarselo. Anche per capire la natura dell’amore “platonico” tra Chaplin e Terry.
Veniamo al seguito della cura della “paralisi”. Nella sequenza qui sotto riportata, una parte, quella terminale, della “cura con le parole”: al centro l’indicazione di una sorta di coincidentia oppositorum tra vita e morte; la depressione, in qualche modo, non vede, non sopporta di vedere, questa equivalenza.
Il “Viva! Viva! Viva!” potrebbe suonare anche come “Muoia! Muoia! Muoia!”
Perché entrambi gli inviti sono caratterizzati dalla stessa passione (dalla stessa vitalità).
Vedremo che, nei momenti nevralgici, ci imbatteremo il altre “iterazioni”.
TERRY: No, non posso più ballare: le mie gambe…
CHAPLIN: No, isterismo, è lei che lo vuol credere; altrimenti si batterebbe!
TERRY: Per che cosa dovrei battermi?
CHAPLIN: Ah!, vede? Lo ammette [una sorta di lapsus?]. Per che cosa dovrebbe battersi? Per tutto. Per la vita stessa. Non le basta forse? Per viverla, soffrirla, goderla. Per che cosa battersi? La vita è una bella, magnifica cosa… anche per una bella medusa, ah! Per che cosa dovrebbe battersi? Lei ha un’arte, lei danza!
TERRY: Non si balla senza le gambe.
CHAPLIN: […]. Il guaio è che lei non vuole battersi. Non fa che adagiarsi sui malanni e sulla morte. Ma… c’è una cosa altrettanto inevitabile quanto la morte; ed è la vita! Viva! Viva! Viva! Pensi alla forza che è nell’universo. Che fa muovere la terra e crescere gli alberi; e c’è la stessa forza dentro di lei, purché solo abbia il coraggio, la volontà di usarla! Ah!, buona notte.
La terapia con i gesti (o relazionale?): il giorno dopo, tra una cosa e l’altra, Chaplin, per conto suo facendo dei passi di danza divertiti, incoraggia Terry a camminare.
Terry migliora. Non cammina, ma comincia a stare in piedi.
Divertenti e rivelatorie due esclamazioni di Chaplin nel corso degli “esercizi”: “Ah!, gliel’ho fatta!” + “Ah!, ce l’ha fatta!”
Interessante anche la seguente osservazione: “Sa, far prediche e discorsi morali a lei, ha giovato anche a me!”
Viene in mente l’insistenza con cui Devereux, nell’Ethnopsichiatrie des indiens Mohaves, precisa in molte salse che, per poter curare certe malattie, lo sciamano deve averle avute lui stesso.
Probabilmente questo non vale solo per i Mohaves. Vedremo come la “cura”, nella relazione Chaplin-Terry, sarà sempre caratterizzata dalla reciprocità.
Proprio questa reciprocità “vita tua, vita mea”, l’indefettibilità di questa reciprocità, ci ha spinto a fare le ipotesi già poste in apertura.
i. “Calvero!, guardi!, cammino! [Chaplin solleva il capo e la guarda]. Cammino! Cammino! Calvero! Cammino! Cammino, Cammino!”
Dopo non molto, infatti, “tocca” a Chaplin. Che, dopo un insuccesso clamoroso, è stato licenziato in tronco.
CHAPLIN: […]. Se ne sono andati. Non mi capitava da quand’ero principiante. Il ciclo è completo! […].
[…]
CHAPLIN: È inutile, sono finito, finito! [Piange e si accascia, capo e braccia, sul tavolo].
TERRY: Sciocchezze! E lei, Calvero, permette che un solo spettacolo la distrugga? È assurdo. Lei che è un grande artista. Adesso è il momento di mostrar loro di che cosa è fatto; adesso è il momento di battersi. [Si alza.] Ricorda quel che ha detto nella stanza là, vicino alla finestra? Ricorda quel che ha detto? La grande forza che è nell’universo, che fa muovere la terra e crescere gli alberi. La forza è dentro di noi. [Arretra.] Bene!, ora è il momento di usare quella forza e di combattere! [Si osserva.] Calvero!, guardi!, cammino! [Chaplin solleva il capo e la guarda]. Cammino! Cammino! Calvero! Cammino! Cammino, Cammino!
Un’altra straordinaria iterazione.
Qui viene in mente uno dei primi film di Hithcock, The Lodger (Il pensionante, 1926). Terry agita le mani dal basso verso il largo (nessuna crocifissione!)
Sembra evidente: in una relazione del tipo “vita tua, vita mea”, si condivide il dolore e la gioia; la morte e la resurrezione.
l. “Calvero! Calvero! Calvero [singhiozza]. Calvero! Calvero!”
I Nostri vanno a fare una passeggiata.
Seduti su una panchina:
TERRY: Tireremo avanti!
CHAPLIN: Noi?
TERRY: Sì, noi, lei e io insieme.
Terry riesce a farsi assumere all’Empire Theatre… Riesce a fare assumere anche lui, come clown all’interno della Columbine recitata e danzata da lei.
A casa, mentre lei si occupa di lui; lo mette a letto, gli dà la medicina ecc.:
TERRY: […]. Vuole che tu faccia il clown nel mio balletto.
CHAPLIN: Basta fare il clown! La vita non è più buffa per me. Non mi fa più ridere. D’ora in poi sono un comico in pensione!
Ma, al momento giusto il Nostro compare sulla scena.
È nel corso delle prove che Terry incontro il suo ex-innamorato, il pianista che accompagna la ballerina. Chaplin capisce.
Tenete presente che nella sequenza che sotto riporto, il volto di Chaplin è un primo piano sciabolato, volta a volta, da una luce intensissima e da un buio quasi impenetrabile.
Alla fine delle prove Terry va da abbracciare Chaplin:
TERRY: Calvero?
CHAPLIN: Sono qui. [Luce].
TERRY: Ti stavo cercando fuori. Cosa fai seduto qui al buio?
CHAPLIN: Sarei ridicolo alla luce. Guarda [piange, in mano un fazzoletto], non ho pudore! Ma non so tenermi. Mia cara, sei una grande artista. Una vera artista. Sono assurdo, ridicolo.
TERRY: Calvero… Aspettavo questo momento… Io ti amo! È tanto che desideravo dirtelo. Sin dal primo giorno quando tu credesti che fossi una donna di strada. Tu mi accogliesti, ti curasti di me, mi hai salvato la vita e l’hai ispirata. Ti prego, Calvero, sposami!
CHAPLIN: Ma che sciocchezze sono queste!
TERRY: Non sono sciocchezze!
CHAPLIN: O mia cara, io sono solo un vecchio!
TERRY: Non mi importa come sei! Io ti amo. Questo importa.
CHAPLIN: Ah! [Ride.] Ah, Terry, Terry, Terry! [Iterazione].
Una brevissima sequenza davanti allo scenografo:
SCENOGRAFO: […]. È un’occasione per i clown per fare qualcosa di buffo.
CHAPLIN: Mentre lei [Terry] muore!
SCENEGGIATORE: Già!
Di nuovo coincidentia oppositorum.
Quando Terry deve lanciarsi nella sua danza, atterrita dalla paralisi alle gambe, è inchiodata nelle quinte:
TERRY: Sono spaventata, prega per me.
CHAPLIN: Iddio aiuta chi sa aiutarsi da sé. In bocca al lupo.
TERRY: Ah, no!
CHAPLIN: Terry!
TERRY: Non posso, non posso! [Iterazione].
CHAPLIN: Cosa?TERRY: Le gambe, non le sento più!
CHAPLIN: Sciocchezze! Prova a camminare.
TERRY: Non, non le muovo, sono paralizzate.
CHAPLIN: È solo un isterismo. Smettila! Hai capito? Tocca a te. Vai in scena.
TERRY: No, non posso! Non mi reggo. Sono paralizzata.
CHAPLIN: [Le affibbia un sonoro ceffone che quasi la fa rotolare a terra]. Vai!, in scena! [Lei va]. Vedi! Le tue gambe non hanno nulla! Vai in scena!
Chaplin si va a rannicchiare in un angolino pregando: “Chiunque tu sia e qualunque cosa sia, fa che non si fermi, e nient’altro!”
Nient’altro!
Dopo il ballo di lei, Chaplin se ne va pimpante nel suo camerino.
Più tardi, ritrovato da Terry, tra le sue braccia mostra una faccia felice, radiosa: e illuminatissima (vedi la scena dei contrasti di luci). Il Pendant: il successo di lei è anche quello di lui (“Vita tua, vita mea”).
Terry, anch’ella felicissima, a lui abbracciata: “Calvero! Calvero! Calvero [singhiozza]! Calvero! Calvero!”
Un’altra straordinaria iterazione.
Chaplin se la squaglia. Non vuole interferire, nel corso del pranzo di gala, sui rapporti tra Terry e il pianista.
Questo riaccompagna a casa Terry. Calvero li ascolta scambiarsi le seguenti battute:
TERRY: […]. Non lo faccia [il pianista ha accennato un bacio].
PIANISTA: Dica che mi ama, almeno un po’.
TERRY: La prego!
PIANISTA: Ho cercato di dimenticare, ma non ci riesco.
TERRY: La prego!, è inutile.
PIANISTA: Non ci riesce neanche lei. Noi due ci amiamo.
TERRY: Non ho mai detto di amarla.
PIANISTA: Con ogni sguardo, con ogni gesto lo dice, malgrado se stessa.
TERRY: No, non dica così!
PIANISTA: So quale devozione ha per Calvero, ma non lo può sposare, non è onesto verso lei stessa. Lei è giovane, è all’alba della vita. Questo affetto è romanticismo di gioventù. [Qualcuno avrebbe detto: “l’estremismo è una malattia infantile”]. Ma non è amore.
TERRY: No, si sbaglia! Lo amo davvero!
PIANISTA: Ne ha pietà.
TERRY: No, è più che pietà. È qualcosa con cui sono vissuta, cresciuta. È la sua dolcezza, la sua tristezza, la sua anima di cui non potrò mai fare a meno.
PIANISTA: Buonanotte Terry. Addio!
m. Per uno della mia età la verità è tutto, tutto [Iterazione.]!
Il giorno dopo:
CHAPLIN: Bene, ce l’hai fatta! Che effetto fa svegliarsi celebri?
TERRY: [Singhiozza].
CHAPLIN: Hai ragione. Fatti un bel pianto e sfogati. Accade una volta sola!
TERRY: Calvero, sposiamoci subito. Se potessimo andar via! Quella casa in campagna, dove trovare la pace e la felicità!
CHAPLIN: Felicità? È la prima volta che pronunci questa parola!
TERRY: Sono sempre felice con te!
CHAPLIN: Davvero?
TERRY: Ma certo, ti amo!
CHAPLIN: Sprecare l’amore per un vecchio!
TERRY: L’amore non è mai sprecato.
CHAPLIN: [Ride]. Sei come una suora. Vuoi rinunciare a tutto nella vita per il mio bene. Non è bello sciupare la gioventù. Tu meriti più di questo.
TERRY: Calvero!
CHAPLIN: Lasciami andar via!
TERRY: Ma cosa ti prende ora?
CHAPLIN: Non lo so, se avessi la forza di andarmene! Invece resto qui a tormentare me stesso. E questo non va, tutto ciò è falso. Per uno della mia età la verità è tutto, tutto [iterazione]. Solo questo mi resta, questo! La verità. E, se possibile, un po’ di dignità!
TERRY: Mi ucciderò se tu mi lasci. Io odio la vita! Il tormento, la crudeltà della vita. Non potrei vivere senza di te. Vuoi capirlo? Io ti amo!
CHAPLIN: Tu vuoi amarmi!
TERRY: Ma io ti amo, ti amo [iterazione].
CHAPLIN: È lui che ami, ed è giusto!
TERRY: Ma non è vero!
[…]
TERRY: Ma io non lo [il pianista] amo, non l’ho mai amato; ti prego, devi credermi, ti prego!
Chaplin se ne va dopo aver perso di nuovo il suo posto. Terry rientra. Tecnica filmica che riprende il début (e ricorda Frenzy): è come se Terry vedesse, prima di poterla leggere, la lettera di addio.
Lettala, si precipita giù per le scale:
TERRY: Alsop! Alsop! Alsop!
PADRONA: Che cosa c’è?
TERRY: Signora Alsop!
PADRONA: Su, su, bambina! Che cosa è accaduto?
TERRY: Calvero! Dov’è? Lo ha visto?
PADRONA: Che vuol dire?
TERRY: Mi ha lasciato… Se ne è andato!
Vedete bene:
1) la reiterazione; un vero e proprio Leitmotiv;
2) che cos’è quella “verità” che è “tutto”? Tanto più ad un certa età? Cioè, quando si dovrebbe aver capito com’è fatta la vita?
Sicuramente non ha a che fare col sesso. Ha a che fare con l’amore. Con l’amore che trasforma il “mors tua, vita mea” in “vita tua, vita mea”. Con nessun altro Terry ha sperimentato questa cosa straordinaria se non con Chaplin.
n. “Mi ami, certo! Mi amerai sempre”.
Terry intravede dal taxi Chaplin fare il clown per la strada. Blocca il taxi…
TERRY: Calvero!
CHAPLIN: Terry! Cirano di Bergerac, senza naso. Vuoi sederti? Bene. Siedi lì. Così te lo han detto, eh?
TERRY: Ti ho cercato per tutta Londra, Calvero.
CHAPLIN: Sempre la stessa!
TERRY: Ti pare?
CHAPLIN: Un po’ più matura soltanto.
TERRY: Non voglio esserlo troppo.
CHAPLIN: Nessuno lo vuole.
TERRY: Mi ci hai costretto tu andando via [fazzoletto].
CHAPLIN: Ah, Terry, è stato per il meglio! Tutto per il meglio.
TERRY: Può darsi; non lo so. Ma è finito qualcosa. Finito per sempre.
CHAPLIN: Nulla finisce, cambia soltanto.
TERRY: Io ti amo ancora.
CHAPLIN: Mi ami, certo! Mi amerai sempre.
TERRY: Calvero, ritorna! Devi tornare!
CHAPLIN: Non posso. Devo andare avanti. È il progresso.
TERRY: Lasciami venire con te. Farò qualsiasi cosa per farti felice.
CHAPLIN: Per questo soffro. So che è vero [anche lui: fazzoletto.].
TERRY: Ma Portant vuole fare una serata a parte per te!
CHAPLIN: Non voglio la sua carità.
TERRY: Carità? Dice che sarà il più grande avvenimento della storia del teatro!
CHAPLIN: Non credo nei grandi avvenimenti. Ma vorrei avere un’occasione per mostrare loro che non sono finito.
TERRY: Ma certo!
CHAPLIN: Ho ancora delle idee, sai? Ho lavorato sodo. Ho preparato un… un numero nuovo per me e un mio amico. Una specie di satira musicale.
TERRY: Magnifico!
CHAPLIN: Si tratta di un bravo pianista e io col violino.
TERRY: Splendido!
CHAPLIN: Qualche cosa di veramente molto buffo.
Avete notato il “sempre” che ritorna? Il Leitmotiv. “Mi ami, certo! Mi amerai sempre”: Chaplin capisce e registra che l’amore di Terry è un amore “eterno”.
Ma che cos’è un amore eterno?
Difficile spiegarlo.
Un’idea ce la dà il film. In prima battuta si potrebbe dire che “eterno” è una parola grossa; forse allude ad una piccola cosa che, però, potrebbe anche diventare grossa: il passaggio dal “mors tua, vita mea”, al “vita tua, via mea”!
o. “Farei qualsiasi cosa per farlo felice”.
Terry organizza una claque:
TERRY: Ho istruito la claque, per il numero di Calvero. Ho dato degli appunti perché sappiano dove ridere,
PORTANT: È così scadente il suo numero?
TERRY: Mi preoccupa. Se fa fiasco stasera morirà, ne sono certa.
PORTANT: Non sarà un fiasco! Il pubblico sarà comprensivo.
TERRY: Ma lui non vuole comprensione; non fa che dirlo. Vuole un autentico successo, stasera!
PORTANT: Cosa si aspetta? Non è più quello di una volta!
TERRY: Non bisogna dirglielo.
PORTANT: Dica, mia cara, vuole ancora sposarlo?
TERRY: Farei qualsiasi cosa per farlo felice.
PORTANT: È un uomo fortunato; è molto, molto fortunato [iterazione].
“Farei qualsiasi cosa per farlo felice”. È evidente, da tutta la sequenza, che l’amore qui è il “vita sua, vita mea”.
Nient’altro.
Ma vi pare poco?
p. SATIRA MUSICALE… (vedi sopra)
q. “E come sarà sempre d’ora in poi. Noi gireremo il mondo”.
CHAPLIN: Che cosa ti hanno detto?
TERRY: Ti senti bene?
CHAPLIN: Certo! Io sono come la gramigna. Più mi si taglia e più spunto di nuovo. Li hai sentiti? Non parlo della claque!
TERRY: Magnifico!
CHAPLIN: Ecco com’era prima. E come sarà sempre d’ora in poi. Noi gireremo il mondo. Ho delle idee. Tu hai il tuo ballo, e io i miei numeri… E, nell’elegante malinconia del crepuscolo, egli ti dirà che ti ama!
TERRY: Non importa. Sei tu che io amo.
CHAPLIN: Il cuore e la mente, che grande enigma! (Heart and mind, what an enigma).
Che ve ne pare?
Chaplin si è accorto che era stata preparata una claque.
Sa di avere avuto un successo straordinario.
Ma manda un messaggio a Terry…
A questo punto sta al gioco: di nuovo un “sempre” suo al progetto di Terry. Rispunta quel “noi” che una volta, sulle labbra di Terry, lo aveva stupito.
Anche se non può non richiamare la conclusione (“E, nell’elegante malinconia…”) dell’allocuzione fatta a Terry al principio della loro “storia” a proposito dell’esito inevitabile e inevitabilmente felice della sua storia col pianista.
Poco dopo, rivolto al medico:
CHAPLIN: La mia ora è vicina, dottore. Ma poi non so: sono morto tante volte!
DOTTORE: Soffre molto?
CHAPLIN: Non più! Dov’è [Terry]? Fatemela vedere!
Con la “visione” di Terry si conclude il film. (Oddio: con “Lo spettacolo continua!”, davanti a Chaplin avvolto dal lenzuolo…)…
7a). La giustizia
Visto il film, ad un certo punto ho rimuginato qualcosa sulla giustizia…
Probabilmente sull’onda delle emozioni provate di fronte ad una vicenda così profondamente marcata dal ribaltamento: dal “mors tua, vita mea”, al “vita tua, vita mea”.
Non potevo, infatti, non pensare a René Girard che recentemente ho letto e commentato.
Alla sua teorizzazione del sacrificio come mezzo per evitare la distruzione, la autodistruzione di una comunità. L’escalation della violenza porta al bellum omnium contra omnes; di schianto, il bellum omnium contra unum, il sacrificio di una vittima, riporta la pace. Come mai? Perché la vittima è innocente; quindi non provoca nessuna ritorsione. Quindi, fine dell’escalation.
La vittima è, per definizione, innocente.
In Luci della ribalta, il cosiddetto sacrificio diventa uno strumento di salvezza per entrambi.
Contro l’“homo homini lupus” di Hobbes, l’“uomo è Dio all’uomo” di Spinoza (= “nulla è più utile all’uomo che l’uomo stesso”).
Sì, forse queste chiamiamole premesse, spiegano perché, mentre si avvicinava la parola “End”, ho pensato alla giustizia.
Nulla di nuovo: già da tempo, ho capitalizzato la lezione di René Girard.
Ho ripensato al “processo breve”.
Molti sono a favore, molti contro.
A favore i cortigiani che vogliono protetto il premier (i meno cortigiani che vogliono protetta la governabilità). Contro gli illividiti che vogliono abbattere il medesimo premier manu militari (i meno illividiti che vogliono una giustizia che “funzioni”; una giustizia “fatta” – “Giustizia è stata fatta!” – possibilmente “uguale per tutti”).
Tra me e me, quasi situandomi al di sopra delle vicende politiche di questo nostro paese che tanto invece mi coinvolgono, mi sono detto e ridetto: “Ma perché nessuno chiarisce che la ‘lentezza’ – solitamente si parla di ‘lungaggini’ – della giustizia è la sua peculiare caratteristica?”
Cioè il suo strumento più efficace?
Che, cioè, la giustizia “funziona” – nel nostro ordinamento; nel nostro stato di diritto; in genere, in tutta la civiltà occidentale e non solo – proprio grazie a tutti gli “strumenti” (strumenti, non “cavilli”) che consentono un “rinvio” (“rinvio a giudizio” ecc.).
Da Girard apprendiamo che lo “spostamento” del sacrificio da Isacco a un “becco” segna e simbolizza il passaggio dal sacrificio umano a quello animale. Che la designazione di un giudice consente di superare il sacrificio umano, anche nella sineddoche (una parte per il tutto) dell’“occhio per occhio”.
Ora, rendere la macchina della giustizia sempre più complessa allo scopo di renderla sempre più giusta (vedi i già citati tre gradi di giudizio), consente di evitare, ad esempio, che un criminale venga addirittura condannato a morte ingiustamente.
In questo caso avremmo l’intero per l’intero (non per una sua parte). Una vita per una vita.
Ma anche nel caso che il criminale sia di fatto e di diritto colpevole, egli sarebbe sempre un “capro espiatorio”.
Perché?
Diciamocelo francamente, il criminale che viene condannato, anche se realmente colpevole, è sempre un capro espiatorio; nel senso che paga anche per tutti coloro che sfuggono alla giustizia (le sono sfuggiti, le sfuggiranno).
Di nuovo una parte per l’intero. Qui l’intero è rappresentato da tutti; in ogni caso da tutti i criminali non ancora scoperti. Se non ci fosse il sacrificio di qualcuno, rappresentato qui non dall’innocente ma dal colpevole…
E questo sembra contraddire la lezione di Girard secondo la quale la vittima è sempre, per antonomasia, innocente…
In realtà il Girard più profondo, nell’interpretazione del mito, considera Edipo un innocente. Ma, lo dipinge anche, per lo meno all’inizio della vicenda esemplare, capace di trasformare in vittima il suo avversario: Creonte…
Per Girard la vittima è sempre innocente. Ma qui il punto oscuro e insieme chiarificatore: la vittima è innocente anche se è colpevole. In altri termini: nessuno è colpevole (anche se tutti lo sono)!
Ma completiamo la frase lasciata a mezz’aria: se non ci fosse il sacrificio di qualcuno ci troveremmo a scannare in continuazione come si pensa che facciano paesi “meno progrediti” del nostro.
Anche qui faccio valere l’equivalenza, per il sentire moderno (quello che si definisce “non-forcaiolo”: girardiano), della condanna a vita (da sei mesi a più anni), anche se giusta, al sacrificio di un capro espiatorio.
Ma non si possono mandare tutti assolti! Anche se a questo provvede de temps à autre la clemenza, l’amnistia, l’indulto…
Bisogna educare a comportarsi giustamente = adeguatamente = civilmente (altri direbbero: cristianamente ecc.).
La soluzione? Costruire una giustizia al massimo giusta (ripeto: 3 gradi di giudizio + prescrizione ecc.), talmente complessa che non potrà funzionare mai.
Perlomeno alla maniera vagheggiata dal più ampio ventaglio dei forcaioli. Sì, perché forcaiolo è chiunque voglia giustizia. Lo è al massimo il giudice; forse di più il Pubblico Ministero.
Perché volere che giustizia sia fatta vuol dire volere tagliare la gola: nell’etimologia di Girard “decidere” = “tagliare” = “tagliare la gola”.
Che cosa sogniamo noi? Che la giustizia non funzioni?
No!
Che tutti siano giusti?
No! Se per Girard la vittima è “per definizione” innocente, alla luce del conflitto Edipo-Creonte dobbiamo concludere che uscire dalla violenza comporta saper “definire” innocente anche il colpevole!
Secondo Isaia, nei nuovi cieli e nella nuova terra che Dio creerà, “il lupo e l’agnello pastureranno insieme”.
Abbiamo già richiamato Spinoza: l’“uomo è Dio all’uomo”.
Il Cristo chiedeva di amare il proprio nemico. Spinoza afferma che nessuno è nemico. Infatti, se lo ami il nemico come può continuare ad esserti nemico!
Sogni?
Sogni!
Intanto, con provvedimenti sempre fallimentari, continuiamo a cercare di “contenere” gli ultras; quelli che nella varie “curve” degli stadi commettono violenze su violenze.
Ma non capiamo che gli ultras non fanno altro che esprimere “al meglio” la stessa furia omicida che esprimono i giocatori “disciplinati” nelle squadre.
Disciplinati come i gladiatori!
Non cogliete il senso della ferocia che mima l’omicidio nei gesti di tutto il corpo, ma soprattutto delle braccia che gesticolano come se fossero armi; armi con cui infilzare il rivale; anzi, armi già bagnate del sangue infine abbeverante del rivale.
Ma queste sono nudità del re… inutili.
7b). Ma, venendo a più miti consigli
Forse può essere utile un chiarimento: chi scrive non ha fatto un’esperienza tranquilla con la giustizia. Ne è venuto fuori (forse ha solo cercato di venirne fuori) con un tentativo girardiano di “perdono”.
Al di là dell’orizzonte pietistico, il suo perdono ha il solo e semplice senso della rinuncia all’escalation della vendetta.
Pensate che, mentre uno dei due suoi difensori stava facendo a fette il Pubblico Ministero colpevole di aver proferito sciocchezze grandi come case, poiché tale PM, seduto davanti all’avvocato, si chiudeva sempre più nella spalle, soffrendo per il peso dei violenti e pertinenti rimbrotti, il moto della sua anima (che non ha espresso se non gestualmente) è stato: “Avv., dagli (al PM) requie; non ‘finirlo’. Abbine pietà!”
Detto questo, proseguo proponendo che tutto il problema si riduce a questo: come si gestisce un momento di “crisi”?
Si può gestire in modo distruttivo; come con Mani Pulite: un’intera generazione di politici è stata “fatti fuori” (Ed è stata “fatta” giustizia; perlomeno un po’ di giustizia).
Ma non è che ci si sia trovati molto meglio!
Si può, invece, inviare i processi in qualche “porto delle nebbie” dove raggiungeranno un binario morto.
Sì, perché i nostri valorosi magistrati hanno spesso utilizzato la giustizia per annebbiare, non per chiarire.
Ripeto: come si gestisce una crisi?
Probabilmente tutti danno un contributo utile: i giustizialisti o forcaioli cercano di evitare il porto delle nebbie o la nebbia dei porti: e vogliono tutto qui e subito. I non giustizialisti tentano di evitare che a governare lo stato sia una parte dello stato, la Magistratura. E rifuggono da una sentenza sbrigativa a carico di chiunque.
La fattispecie specifica evidentemente è Berlusconi.
Un comune mortale si trova rinviato a giudizio ad un anno intero di distanza. Qui la lentezza fa il suo lavoro. Dopo un anno comincia il processo. La prima udienza e poi le restanti. Con calma e sangue freddo!
Con Berlusconi il tentativo è, invece, di arrivare il prima possibile al giudizio. In gran fretta. Il caso Mils è troppo succulento! Ci si banchetta subito! A tamburo battente.
È possibile una contemperanza tra queste diverse pulsioni (o diverse visioni della giustizia)?
Forse sì.
Ma, forse, soltanto attraverso il conflitto tra di esse. Conflitto dagli esiti incerti. Fino ad ora: catastrofici!
8) Sprofondare (nella depressione e ovunque) è anche approfondire (la depressione e qualsiasi cosa) (scritto a inizio 2013)
Da un certo punto in poi ho cominciato ad andare a letto tardissimo (questo l’avevo sempre fatto; recentemente ho tifato per Obama fino alle otto del mattino!), ma anche a levarmi la mattina seguente tardissimo.
Al limite, a non levarmene…
Il tutto è cominciato come una conquista: imitando il Kafka bambino che va a letto perché glielo hanno ordinato i genitori, ma si domanda il perché gli dicano che “si fa tardi” se die Zeit ist unendlich!
Da un certo momento in poi, ho capito che si trattava anche di una conseguenza della depressione in cui ero precipitato.Nei primi ‘70, in un sogno scoprivo che nella mia camera da letto c’era una porta; e che questa introduceva in uno spazio (un’altra stanza) che ignoravo.
L’interpretazione fu inevitabile: non utilizzavo delle possibilità che, invece, erano a portata della mia mano!
Un sogno simile l’ho rifatto nei primi anni ‘90.
Recentemente, invece, un sogno col medesimo schema ma modulantesi in modo radicalmente diverso: scopro che ho un piccolo appartamentino vicino a casa mia. Completo di tutto…
Me ne sono completamente dimenticato…
Mia moglie – l’accompagna anche mio padre – si sta organizzando per portare in questo appartamento il desco da calzolaio (che, di fatto, rappresenta l’eredità paterna: mio nonno o era calzolaio o commerciava in calzature; per questo ho comprato il desco).
Mi sveglio.
E mentre sono sveglio mi domando se la scoperta corrisponda alla verità
E continuo a pensare a questo mentre sono sveglio.
Quasi che continuassi a sognare da sveglio.
Sì, “da sveglio”!
Questo è lo straordinario!
Mi riaddormento e la ricerca continua.
L’essenziale è che ho continuato a sognare, a svegliarmi, a riaddormentarmi alla ricerca della verità che tale mi appariva sia nel sogno che nella veglia che nel ri-sogno che nella ri-veglia!
Ripensandoci, giorni dopo, mi sono ricordato di un sogno ricorrente negli anni ’80: mi rifugiavo in una sorta di appartamento; anche questo molto piccolo; molto più piccolo di quello di cui sopra; la differenza sostanziale è che si trattava di un abitacolo sotterraneo. Simile a quello di una talpa.
Anche qui Kafka; Kafka = topo.
(Un altro sogno ancora: questo appartamento non era sotterraneo. Tutt’altro! Vicino a casa mia, ma tra ruderi monumentali: ricco di librerie straboccanti volumi, intervallate da miei dipinti schizzanti colori).
Questo sintomo di depressione mi ha lambito già a metà degli anni ‘80. Mi sono accorto che la sera andavo a letto sempre più tardi; Paolo mi aveva consigliato di apparecchiarmi la tavola… E di bermi un bicchiere di vin bianco…
Non soltanto non andavo a letto; ma bevevo fino a un litro ogni sera!
Mi sono detto: qui finisci col deprimerti e con l’alcolizzarti! Mi sono messo alla ricerca delle mie ex-donne… Alla fine mi sono sposato.
L’essenziale del sintomo che mi ha afflitto, e continua ad affliggermi, ma non so se debbo parlare di “afflizione”, sta nel fatto che il sogno, o i sogni, della pre-veglia durano a lungo; è come se si estendessero alla veglia; ma le impedissero di farsi limpida; in compenso essi si sclerotizzano. Si ripetono…
Il sogno di sopra anche; un po’ è ripetizione; ma mi sembra qualcosa di più; mi sembra un approfondimento.
Forse gli altri sono stati degli approfondimenti mancati?
La depressione è allora uno sprofondare che è o può anche essere un approfondimento?